IL DON GIOVANNI DEL SEBINO

Leonardo abitava a Pisogne dal 2015, anno in cui la sua azienda era stata assorbita dalla Cutman di Cracovia, che, dopo una macchinosa negoziazione nella quale erano stati costretti ad entrare addirittura il maresciallo e lo zio vescovo per salvargli il posto, aveva lasciato una filiale anche a Iseo.

Viveva da solo.

A dirla tutta non proprio da solo, un sabato con Chiara, un sabato con Giulia, un sabato con Irina di Zagabria.

Percorso obbligato come all’Ikea: tovaglia buona, piatti in ceramica bianca, posate d’argento, due flute in cristallo Melodia, antipasti ricercati, risottino, il tagliere dei formaggi sempre assortito perché la boca l’è mai stràcä, se la sa mìa de acä, un Valdobbiadene Superiore di Cartizze (unico tradimento alla sua terra e alla Franciacorta), una sachertorte, le rose, il ciondolino della gioielleria, e alla fine della serata il tuffo fra le lenzuola profumate con l’ammorbidente alla pesca, le promesse d’amor, ubriache di bollicine.

Amore amore amore se muori tu muoio anch’io!

Amore almeno fino al week end successivo, esattamente fino al venerdì, quando, preciso come un chirurgo, recideva il rapporto rispolverando il copione evergreen del Ti amo troppo, meglio finirla qui, prima che possa farti del male, proprio non lo sopporterei! e nel mentre amava troppo, al cellulare in tono ispirato, simulando un singhiozzo da pena d’amore, si imbellettava per la Gradisca di turno, apparecchiava, lucidava le posate, rimestava il risotto ai funghi porcini che avrebbe servito con una dadolata di pancetta croccante, controllava la temperatura del Cartizze, sistemava gli asciugamani in bagno, in maniera chirurgica anche quest’ultimi, a nove centimetri dal bidè, a dodici e mezzo dal lavandino, accendeva il faretto.

Cosa non si fa per il bene di una donna!

Ogni week end andava così, passando da una coscia all’altra, da una chioma all’altra, da un piacere all’altro, senza progetti, senza sentimento, senza un principio d’amore.

“Amore” un alieno tenuto a distanza come un cecchino pericoloso che avrebbe potuto colpirlo e freddarlo da un momento all’altro, se solo avesse abbassato la guardia e avesse abbandonato quel rapido sguardo circolare da Don Giovanni del Sebino che non escludeva nessuna donna, individuando la sottoveste di seta anziché il body, la calza di marca, pregustando il piacere del brivido soprannaturale a contatto con la carne calda.

Poi una sera d’ottobre era arrivata lei, mentre faceva rifornimento dal benzinaio di Via Trento. Non era certo la panterona aggressiva in abiti domopak cuciti addosso, come piaceva a lui, anzi sembrava addirittura timida a giudicare dal lieve rossore sul viso, accentuato dalla tramontana, che da Monte Guglielmo sbraitava verso il lago senza risparmiare i cipressi, i noccioleti e i cassonetti della spazzatura.

Eppure quel sorriso di cortesia rivolto al benzinaio lo aveva incantato.

Magra, delicata, occhi color nocciola con pupille d’inchiostro indagatrici e assetate.

Non era bellissima ma aveva quel nonsoché di ingenuo candore che gli accendeva i sensi. Somigliava a quell’attrice tutta riccioli di Sesso bugie e videotape.

Era rimasto con la sigaretta a mezz’aria imbambolato, avrebbe voluto dirle qualcosa di divertente, in fondo era una gran simpaticone con le donne, ma era a corto di parole.

La sconosciuta, fatto il pieno alla Polo e salutato l’anziano Guerino col quale aveva una certa confidenza, stava per ripartire.

Che fesso! se la stava lasciando scappare.

Corse perciò nella sua direzione e bussò sul finestrino costringendola ad abbassarlo.

-Guardi che le è caduta la sciarpa, irruppe così d’un tratto.

-Si sbaglia, non porto sciarpe, non le sopporto, sarà  di qualcun’altra.

-Sì sì è vero non c’è nessuna sciarpa a terra ma non sapevo cosa inventarmi per non farla andare via, l’avrei persa per sempre, disse, tenendo con la mano il vetro e versando su quel sempre una fonduta di cioccolato alla quale nessuna donna avrebbe potuto resistere.

La riccioluta infatti non resistette, spense il motore e senza guardarlo negli occhi scoppiò a ridere.

Rise a lungo.

E fu inverno, primavera, estate, autunno e di nuovo inverno.

Leonardo non aveva mai retto tanto con la stessa donna.

Che metamorfosi.

Si specchiava e si vedeva bello, si sentiva bene!

E se non fosse stato per sua cognata forse le cose sarebbero andate diversamente.

Un giorno mentre facevano la spesa, lo guardò e disse.

-Leo ma sei innamorato? Questa lucetta negli occhi, eh no questa non c’era prima, tu sorridi ai pomodori ramati, per forza che sei innamorato! Ti sei messo pure il profumo, beh allora chi è? La conosco? Tuo fratello lo sa? Non mi ha detto nulla. Perché non la porti a cena da noi così la conosciamo, magari a Santa Lucia, ché poi dobbiamo andare in montagna con i bambini?

Leonardo si era intristito e senza accorgersene aveva iniziato a rigirare le chiave della macchina fra le dita grassocce e bianche in maniera nervosa prima di rispondere.

-Ora ci penso, gliene parlo e vediamo se le fa piacere.

-Era ora che mettessi la testa a posto, sono proprio contenta.

Ascoltò le parole della cognata, immobile, guardandola con ironia, un po’ in difficoltà , pensando che le e donne corrono e arrivano sempre avanti, quando le raggiungi loro hanno già  ricominciato a correre, non si fermano mai, uccidendo il presente, trascinandoti a forza nel futuro.

Era l’inizio di dicembre, un pomeriggio terribile per Leonardo.

Le parole di Elena, lo scossero talmente tanto che staccò il telefono e si mise a letto sperando in una febbre miracolosa che lo avrebbe protetto dalle avversità  della situazione. Sudava e non riusciva a prendere sonno. Del resto era appena sera, nemmeno le galline di Lurensa si erano ritirate,

perciò si risolvette ad uscire dalle lenzuola con la testa piena di ombre e il passo biascicato di un invalido.

Colpa di quella dannata parola “innamorato” che lo aveva fatto precipitare nel panico, andava verso la finestra fingendo di guardare fuori per vedere che tempo facesse, deambulava scrutando le tende in organza avorio, indietreggiava nella stanza senza capire che fare, si sentiva minacciato, ripeteva senza voce “innamorato”, questa parola gli beveva il sangue, gli divorava la carne, gli asciugava la gola,

gli spegneva i pensieri, i progetti, i sogni.

Cristo!

la sua libertà  stava per finire

gli mancava l’aria

spalancò la finestra!

La nebbiolina dal lago si alzava come un velo di garza azzurro opalescente in cui baluginavano le ultime foglie gialle del ginko biloba, i cani della vicina abbaiavano, le sedie ansimavano ai colpi del vento, il cancelletto sbatacchiava.

Tutti questi rumori sembravano l’eco delle risate del diavolo che si prendeva beffa di lui, gli sembrava di respirare qualcosa di mortale nell’aria, che incubo, no, no, non era possibile, doveva fare qualcosa per evitare che la sua vita finisse così, doveva annullare il volo per Cracovia, ma come faceva? non poteva proprio ora!

Dora non avrebbe capito, stava preparando la lista dei piatti del pranzo di Natale con sua madre, la sorella, i nipotini, doveva presentarlo alla famiglia, aveva prenotato l’albergo nel paesino di montagna dove era nata, glielo aveva chiesto proprio lui, aveva addobbato l’albero sistemando i regali, che cosa le avrebbe detto?

L’aveva chiamata e algido e ardito le aveva detto:

Non vengo né questo week end, né il prossimo, non verrò perché io non sono innamorato di te.

Facile.

Fu facile.

Facile come ripartire in auto lungo il Sebino e andare in giro a godersela col cuore gonfio al pensiero di un nuovo incontro, di una nuova donna, di una nuova ora di sesso, fischiettando canzoncine stonate, preparando risottini e spumantini, alzando la temperatura nella stanza da letto, versando ammorbidente sulle lenzuola, ordinando rose.

Certo quando passava dal distributore come oggi, primo dell’anno, il cuore gli faceva uno strano scherzetto, gli pungolava in un punto, come se una sarta gli infilasse degli aghi fra un muscolo e l’altro e se per caso cedeva alla debolezza del ricordo di Dora, coperta fino al mento nel piumino amaranto col viso acceso dalle risate e dal porpora del tramonto, le fitte aumentavano.

Chissà , si chiedeva, che faceva ora, dove stava, con chi? Chissà  se aveva ancora quel piumino?

Che sorriso! Gli mancava quel sorriso anche se non glielo aveva mai detto.

Cazzo che fitte, pi๠forti del solito, se non passavano avrebbe dovuto andare al pronto soccorso, ma a Capodanno i medici erano tutti in ferie, lo avrebbero lasciato in codice giallo ore e ore facendolo morire su una sedia in corridoio! Meglio andare a casa e chiamare l’amico medico, si promise, guardando i cipressi calvi, pi๠evanescenti e belli del solito, sembravano fantasmi, anche la luce sembrava una luce fantasma, un giorno fantasma, pensò, mentre fissò la fiammella della luce del sole per l’ultima volta.

Infarto, avrebbe detto il medico alle 20.00 quando accorse sul posto.

Alla stessa ora a Cracovia Dora e la sua famiglia si stavano mettendo a tavola per mangiare la zuppa di barbabietole con i raviolini.

Addio Dora, aveva pensato quel giorno dopo la telefonata, perdonami ma io non voglio e non posso correre il rischio di innamorarmi di te.

Addio Leonardo, aveva pensato lei quel giorno dopo la telefonata, come ho fatto a pensare di potermi innamorare di te?

 

Acri, 8 gennaio 2020

Aurora Luzzi